Una traduzione originale di Federico Montese

Edgar Allan Poe #1

Il Cuore Rivelatore (1843)

Federico Montese
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11 min readOct 9, 2021

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CC BY-NC-ND 4.0

IL CUORE RIVELATORE,
di Edgar Allan Poe (1843)
(una traduzione originale di Federico Montese)

O Scienza! figlia diletta sei tu di Tempi Vetusti!
Che alteri, con occhi penetranti, delle cose la realtà,
Perché mai, dunque, del poeta il cuore braccheresti,
Avvoltoio, le cui ali non son altro che pallide verità?

Come dovrebbe egli mai amarti? o giudicarti illuminata,
Tu, che mai lo lasceresti agli amati suoi viaggi
Per cieli preziosi, di tesori alla ricerca anelata,
Bench’egli con impavida ala presto alto volteggi?

Trascinata non hai, Diana, lontana dal suo carro splendente?
E non hai tu spinta l’Amadriade via dal bosco incantato,
A cercar rifugio verso stella che non fosse più ridente?
Non hai forse sottratto la Naiade al flutto suo fatato,
l’Elfo alla fresca erba virente, e me via sospinto
Dai sogni d’estate all’ombra dell’albero di tamarindo?

— Sonetto alla Scienza, di Edgar Allan Poe (1829)

L’Arte ha lunga vita e il Tempo fugace scorre,
ed i nostri cuori, benché audaci e impavidi,
pure stanno,
come flebili tamburi,
battendo
funebri marce verso la tomba.
— tratto da: A Psalm of Life, di Longfellow (1838)

È VERO! — nervoso — così, così orrendamente nervoso io sono sempre stato e sono; ma perché mai direste voi che sono pazzo?
La malattia ha affinato i miei sensi — non distrutti — né annebbiati. Acuto oltre tutti era il senso dell’udito. Ho udito tutte le cose in cielo e in terra. Ho udito molte cose dall’inferno. Come potrei esser dunque io un povero pazzo? Prestate orecchio! e osservate con quale coscienza, con quale calma io possa raccontar voi l’intera storia.

È impossibile dire come inizialmente l’idea s’introdusse nel mio cervello; ma una volta concepita, essa mi perseguitò giorno e notte. Ragione non ve n’era nessuna: non razionale, non passionale. Volevo bene al vecchio. Mai mi trattò male. Mai mi offese. Mai ebbi brama del suo oro. Io credo che fu il suo occhio! fu questo! Uno dei suoi occhi, che rassomigliava a quello di un avvoltoio — un livido ceruleo occhio ricoperto di membrana. Ogniqualvolta esso cadeva su di me, il sangue mi si raggelava nelle vene; cosicché a poco a poco, lentamente, io mi decisi di prendere la vita del vecchio, e liberarmi così di quell’occhio per sempre.

Ed ecco il punto: voi mi credete matto. Ma cosa ne sanno i matti. Avreste dovuto vedere, vedere me. Avreste dovuto vedere come saggiamente procedetti; con quale cautela, quale previdenza, quale dissimulazione, io mi misi all’opera! Mai fui così premuroso col vecchio come durante l’intera settimana anzi che l’assassinassi. E ogni notte, verso mezzanotte, io ruotavo il chiavistello della sua porta e la aprivo — quantomai dolcemente! Indi, apertala a sufficienza per far passare il mio capo, infilavo una lanterna cieca del tutto serrata, serrata perché la luce non risplendesse, e dunque cacciavo dentro la mia testa. Come avreste riso nel vedere con quale scaltrezza la cacciavo dentro. La muovevo lentamente, lentamente molto, lentissimamente, dimodoché non disturbassi il sonno del vecchio. Mi ci voleva ben un’ora per porre l’intera mia testa oltre lo spiraglio e riuscire a vederlo disteso com’era sul suo letto. Un pazzo, dico io, sarebbe mai stato un pazzo a tal punto avveduto? E allorché la mia testa era ben dentro la stanza, io dischiudevo la lanterna adagio — molto adagio — adagio (giacché cigolavan i cardini), io la dischiudevo quel tanto appena perché un unico raggio luminoso cadesse sopra l’occhio d’avvoltoio. E questo io feci per sette lunghe notti, ogni notte a mezzanotte, ma trovavo l’occhio sempre chiuso; e così mi era impossibile compiere l’impresa, poiché non l’anziano uomo era a tormentarmi, ma il suo Occhio Oscuro. E puntualmente al mattino, all’irrompere del giorno, con baldanza io mi recavo nella camera e audacemente mi rivolgevo a lui, chiamandolo per nome con aria cordiale e informandomi su come aveva passata la notte. Perciò, vedete, egli avrebbe dovuto essere un vegliardo oltremodo acuto, per sospettare che ogni notte, giusto a mezzanotte, io sbirciavo dentro per osservarlo mentre dormiva.

All’ottava notte ero ormai più accorto di sempre nell’aprir la porta. La lancetta di un orologio coglie i minuti più rapidamente di quanto non avesse fatto la mia mano. Mai prima, come in quella notte, io sentii tutto il potere delle mie personali facoltà, della mia sagacia. Non potevo che a stento contenere i miei fremiti di trionfo. E pensare che ivi io stavo aprendo la porta poco per poco, e lui neanche sognava i segreti miei atti o pensieri. Risi sommessamente — e alquanto con gusto — a tale idea, e dovette udirmi, perché si mosse sul letto improvvisamente, come scosso dal sonno di soprassalto. Ora voi penserete ch’io mi ritirai — nient’affatto. La sua stanza era nera come pece in quella fitta tenebra (giacché gli scuri erano strettamente serrati per timore dei ladri), e dunque io sapevo ch’egli non avrebbe potuto scorgere l’aprirsi della porta, e seguitai a spingerla con costanza, costantemente.

Ebbi la mia testa dentro, e m’accingevo a dischiudere la lanterna quando il pollice inciampò sulla chiusura di stagno — e il vecchio fulmineamente si sollevò dal letto, gridando con voce rotta: «Chi va là!».

Io rimasi perfettamente immobile e senza fiatare. Per un’ora intera! non mossi neanche il minimo muscolo, e in tutto quel tempo non lo sentii distendersi. Stava ancora seduto sul letto, in ascolto, come avevo fatto io notte dopo notte prestando orecchio al ticchettìo dei tarli nel muro.

Di lì a breve, udii un gemito soffocato, e io sapevo ch’era il gemito di un orrore mortale. Non un gemito di sofferenza o di pena — oh no! esso era il sordo suono strozzato che risale dal fondo dell’anima allorché d’un terror di soggezione essa è sopraffatta. Conoscevo bene quel suono. Sovente nelle notti, nelle mezzenotti in punto, mentre il mondo intero dormiva, esso era sgorgato fuori anche dal mio stesso petto, rendendo vieppiù profondi, col suo riverbero raccapricciante, gli orrori che mi frastornavano. Conoscevo bene quel suono. Conoscevo ciò che il vecchio andava vivendo, e provavo pietà per lui, sebbene in cuor mio anche ne ridessi. Sapevo che se n’era stato disteso e desto fin dal primo lieve rumore dacché si rivoltò nel letto. Le sue paure fin d’allora s’erano andate accrescendo su di lui. Se n’era stato a tentar di figurarsi ch’eran senza fondamento, ma non poteva. Se n’era stato dicendo a se stesso: “Non è nulla, all’infuor del vento nel camino”, “È soltanto un topo che attraversa il pavimento”, o “È semplicemente un grillo ch’ha fatto un sol verso!”. Si, se n’era stato a cercar di rassicurarsi con simili supposizioni — ma aveva trovata vana ogni cosa. Vana ogni cosa, perché la Morte nell’appressarsi a lui l’aveva già braccato con la sua ombra oscura e avviluppata la propria vittima. E fu l’influsso funesto dell’ombra non ravvisata che lo portò a sentire, sebbene nulla egli vedesse né udisse, a sentire la presenza della mia testa entro la stanza.

Quand’ebbi ormai atteso per un lungo interminabile tempo, e più che pazientemente, senza sentir mai ch’egli si distendesse, mi risolsi di aprire una piccola — piccola, piccolissima fessura nella lanterna. Così l’aprii — non potete aver idea di quanto furtivamente — finché dalla fessura un singolo flebile raggio non schizzò fuori come il filo d’un ragno, cadendo giusto sopra l’occhio d’avvoltoio.

Era aperto, del tutto aperto — spalancato! — ed io, io… fuor di me andai divenendo, dal momento in cui mi fissai su di esso. Lo vedevo con perfetta chiarezza — qualcosa di uno smorto bluastro, con sopra un velo disgustoso che mi gelò le ossa fino al midollo — mentre d’altro nulla potevo vedere del viso o della persona del vecchio, poiché avevo diretto il raggio, come per istinto, esattamente sul punto malaugurato.

Ebbene, non vi ho forse detto quanto ciò che scambiate per follia non è altro che una estrema sensibilità dei sensi? Ed ecco, giunse alle mie orecchie un basso — tenue — rapido — suono, tal quale a quello d’un orologio avvolto in un panno. Conoscevo bene anche quel suono, anche quello. Era il battito del cuore del vecchio. E accresceva il mio furore! quanto il battito concitato dei tamburi eccita all’ardore della battaglia il soldato.

Ma anche allora mi trattenni e restai immobile. A stento respiravo. Conservai la lanterna ferma, immota. Tentavo di mantenere più fisso che potevo il raggio dritto sull’occhio. E nel frattempo la marcia infernale del cuore andava aumentando. Diveniva sempre più rapida e rapida — e assordante e assordante — ad ogni attimo. Il terrore del vecchio doveva essere estremo! Diveniva più assordante, ve l’assicuro, più assordante ogni secondo! Riuscite a seguirmi? vi ho detto che sono nervoso: proprio così. Ed ecco che giustappunto nell’ora, della notte, in cui è noto che funeste fatalità e forze del male mostrano il loro maggiore influsso, immerso nel silenzio macabro di quella vecchia casa, un così surreale rumore scatena in me un terrore indomabile. Ancora, per alcuni altri minuti ancora, mi riesce di dominarmi e restare immobile. Ma il battito va divenendo sempre più assordante, assordante! Penso che il cuore finirà per esplodere! Una nuova angoscia s’impadronisce di me… il suono potrebbe essere udito da un vicino! L’ora del vecchio è giunta! Con tuonar sonante spalanco la lanterna e mi getto con impeto nella stanza — non strillò che soltanto una, una sola volta — in un baleno lo trascino al suolo e gli scaravento addosso il robusto letto. Un gaio sorriso mi si disegna in volto, così presto l’impresa è già compiuta. Certo, per svariati minuti il cuore seguita a battere con tono sofferto, ma questo non mi contraria: non può essere udito oltre le mura. Dopo una lunga attesa, esso cessa del tutto. Il vecchio è morto. Sposto il letto ed esamino il cadavere. Si, è pietra, senza vita come pietra. Poso la mia mano sul suo cuore e la trattengo per vari minuti. Non v’è pulsazione. È senza vita come pietra. Il suo occhio non mi tormenterà più.

Se ancora voi mi credete un povero matto, non lo crederete oltre quando descriverò le assennate precauzioni che adottai per l’occultamento del corpo. La notte andava estinguendosi, ed io lavorai con estrema sollecitudine, ma silenziosamente. Prima d’ogni cosa feci a pezzi il cadavere. Tagliai via la testa — e le braccia — e le gambe.

In seguito smontai tre tavole dal pavimento della camera, e deposi il tutto nello spazio libero fra le travi. Infine sistemai le assi così abilmente, con tale scaltrezza, che nessun occhio umano — perfino il suo — avrebbe mai potuto notare alcunché di anomalo. Non v’era nulla da lavar via; non una macchia, di alcun genere; in ogni caso, nessuna traccia di sangue. Fui fin troppo previdente su quest’ultimo punto: una tinozza raccolse tutto, ecco!

Quand’ebbi posto fine alla mia opera, erano le quattro in punto — ancor tanto buio come a mezzanotte. La campana suonò lo scoccare dell’ora, e qualcuno dalla strada bussò alla porta. Scesi ad aprire con cuor leggero — perché mai, avrei io, dovuto adesso, aver timori? Si introdussero tre uomini, che si presentarono, con maniere garbatamente cortesi, quali ufficiali di polizia: uno strillo fu udito nella notte da un vicino; il sospetto di un crimine destato; la segnalazione presa in carico; ed essi, gli ufficiali, erano stati delegati ad accertarne le cause.

Sorrisi, — per cosa mai avrei dovuto aver timori? — ed invitai i signori ad entrare. Lo strillo, dissi, fu il mio, gridato nel sogno. Il vecchio, accennai, era via, in campagna. Condussi i miei visitatori per tutta la casa. Li invitai a cercare — a cercar bene. Li diressi, dopo un lungo giro, alla sua stanza. Mostrai loro i tesori del vecchio, al sicuro, inviolati. Nell’entusiasmo della mia fervida sicurezza, portai delle seggiole nella camera, e auspicai loro che per un poco riposassero proprio lì dalle fatiche del lavoro, mentre io stesso, nell’audacia sfrenata del mio magistrale trionfo, posizionai la sedia proprio nel punto sotto il quale giacevano i resti della vittima.

Gli ufficiali erano soddisfatti. I miei modi li convinsero appieno. Ero singolarmente a mio agio; mentre esponevo amabilmente le mie risposte, essi sedevano e discorrevano con piacere di questo e di quello. Ma, ben presto, sentii d’impallidire e di desiderare che se ne andassero. La testa mi doleva, ed ebbi come l’impressione di percepire un tintinnìo nelle orecchie — mentre loro seguitavano a star comodamente distesi a conversare. Il tintinnìo diveniva più distinto, si ripeteva, e diveniva ancor più distinto — ed io più disinvoltamente parlavo, per liberarmi di quella sensazione — ma esso continuava a ripetersi e a guadagnar chiarezza, finché, d’un tratto, mi resi conto che il rumore non era dentro le mie orecchie!

A questo punto, divento oltre ogni dubbio decisamente pallido; alzo il volume della mia voce e lancio le mie parole con vividissima scorrevolezza — ma il suono aumenta ancora d’intensità. Cielo! cosa posso mai fare! esso è… un basso — tenue — rapido — suono, tal quale a quello d’un orologio avvolto in un panno. Ansimo nel respirare, gli ufficiali non hanno notato nulla. Parlo con ritmo più precipitoso, e con fare alquanto vivace — ma il rumore aumenta ancora incessantemente. Mi ergo sulla sedia e argomento sulle prime schiocchezze che mi saltano alla mente, in tono elevato e con veementi gesticolazioni — ma il rumore aumenta ancora incessantemente. Perché mai non se ne vanno via?! Cammino per tutta la stanza avanti e indietro, avanti e indietro, e con ampie falcate, come esagitato e accalorato dalle osservazioni dei miei interlocutori — ma il rumore aumenta ancora incessantemente. O Cielo! cosa posso mai fare! Schiumo dalla bocca. Inveisco. Impreco! Agito con violenza la seggiola sulla quale ero seduto e la strascico chiassosamente sulle assi del pavimento — ma il rumore supera ogni altro suono e aumenta ancora incessantemente. Diventa sempre più assordante… assordante… assordante! Eppure i miei ospiti seguitano in modo affabile a conversare sorridenti; come possono mai non aver sentito tanto rumore?! Dio Onnipotente! No! No! Essi sentono! Essi sospettano! Essi sanno! Se la stanno ridendo alle spalle del povero pazzo! si stanno facendo beffe del mio orrore! — questo io pensai, e tutt’ora penso — qualunque altra cosa è preferibile a quest’agonia, qualunque altra cosa è più tollerabile di tanta derisione, non posso più soffrire questi sorrisi ipocriti! Cielo! devo gridare, o sento che ne morirò! Ed eccolo — ancora! — udite, assordante! assordante! assordante! assordante!

«Maledetti!» urlai, «basta con questa farsa! Confesso il mio atto !— strappate via le assi del pavimento! — qui, qui! — qui giace il battito del suo odioso cuore!».

Né possono tutte le vanità che vesseggiano il mondo alterare d’un briciolo il metro che la notte ha scelto. Ogni battito di vita è in esatta battuta col canto del grillo e col ticchettìo dei tarli nel muro. Sei tu, o uomo, capace d’andare a tempo?
— Henry David Thoreau (diario, 1838)

CC BY-NC-ND 4.0

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Il racconto, le poesie, le citazioni, sono tutti in una traduzione originale di Federico Montese. Sono protetti con deposito legale e distribuiti con licenza Creative Commons CC BY-SA 4.0 (in breve: puoi, liberamente e gratuitamente, condividere, modificare e ripubblicare, anche a scopo di lucro, a patto di citare chiaramente l’autore e la fonte originale e di ricondividere alle stesse condizioni; maggiori dettagli qui). Si tratta di una licenza Free Culture, per condividere liberamente la cultura e la conoscenza delle opere di Edgar Allan Poe.

Le illustrazioni sono realizzare da Federico Montese, sono protette con deposito legale e sono rilasciate con licenza Creative Commons CC BY-NC-ND 4.0 (in breve: puoi, liberamente e gratuitamente, condividere ed usare a scopo personale — non commerciale — a patto di citare chiaramente l’autore e la fonte originale e non modificare l’opera; maggiori dettagli qui).

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